La percezione del “politico” attraverso il media cinematografico
di Enzo Kermol
Il cinema si e sempre prestato a divenire fecondo campo d’azione per l’analisi della società in cui è stato prodotto. Al suo interno qualsiasi categoria di “personaggio” può essere utilizzata per analizzare il sistema sociale descritto da quella singola opera, o meglio da quel gruppo rappresentativo di pellicole prodotto in un determinato periodo di tempo. Se osserviamo alcune figure ricorrenti all’interno dei film possiamo tracciare un percorso sia storico-filmografico che di evoluzione o cambiamento della percezione collettiva rispetto a quel determinato ruolo nel contesto sociale.
Varie categorie sono state esaminate con accuratezza (come gli psicologi[1] o i divi[2]) altre, ad esempio i gangster[3], hanno avuto minor fortuna nel divenire soggetto di studio ed altre ancora sono state volutamente o casualmente tralasciate. La categoria del “politico” e una di queste. Il termine è naturalmente estremamente generico, ma permette un primo approccio ai caratteri formativi di questo insieme di personaggi relativamente diffuso sullo schermo.
La prima suddivisione sarà di carattere geografico e temporale. I film prodotti in ogni Stato hanno caratteristiche diverse, cosi come gli stessi personaggi che di decennio in decennio mutano le qualità specifiche intrinseche del loro essere nel cinema.
La seconda suddivisione riguarda i generi in cui si ritrova il “personaggio” esaminato, la collocazione storica del film (coevo alla pellicola, precedente di alcuni anni o spostato di secoli) e la durata di permanenza nella narrazione, cioè quale importanza riveste ai fini del soggetto originario del film. Il “politico” di per se è un personaggio di difficile definizione per la sua stessa natura di “sovrapposizione” ad altri con caratteristiche professionali o di comportamento ben più rilevanti. Nella definizione dei caratteri delle figure tipizzanti un genere e possibile isolare le caratterizzazioni dei personaggi dandogli connotati solidi, che possono mutare nel corso degli anni, mantenendo però una riconoscibilità immediata atta ad indicare il “ruolo” ricoperto da quella particolare “maschera”.
Il “politicante” western
Nel genere western lo sceriffo, il pioniere, i soldati a cavallo, l’indiano rappresentano, cosi come tanti altri personaggi, una struttura fondante per il genere, difficilmente trasferibile ad un altro contesto. Tuttavia alcune particolari figure possono tracciare un ideale legame con altre analoghe in generi dissimili. Cosi accade per alcune figure, come lo sceriffo del western che può avere una “parentela” con il poliziotto del noir, mentre altre, come il cowboy o l’indiano, sono indissolubilmente legate al genere specifico. Diversamente da tutte le altre figure quella del “politico” attraversa i generi e le epoche con pochi mutamenti, anche se permane, proprio per questa sua duttilità, un legittimo dubbio sulle reali caratteristiche del soggetto da definire o piuttosto, potremmo dire, sulla sua evanescenza e superficialità. Nel western viene subito indicato come “politicante”[4] ed e perciò spesso considerato negativamente. Non a caso viene collocato a mezza strada fra personaggi “rudi” (come il cow-boy, il cercatore d’oro, il boscaiolo) e i fuorilegge, accentuando cosi la vaghezza di caratteri comuni nella figura del politico da un film all’altro ad eccezione della sua stessa definizione di copertura di ruolo sociale. Tuttavia esiste una dicotomia nel modo di rappresentarlo segnata dalla posizione, antitetica, esistente fra il politico corrotto e l’idealista. In Alba di gloria (Young Mr. Lincoln, Usa, 1939, di John Ford) vediamo Henry Fonda (il futuro presidente Abraham Lincoln) destreggiarsi in un processo in cui trionfano i “valori” rispetto agli “interessi”. Analogamente abbiamo il politico dal “volto umano” che si preoccupa delle minoranze indiane in Il grande sentiero (Cheyenne Autumn, Usa, 1964, di John Ford con Richard Widmark) Edward G. Robinson (Carl Schurz, segretario agli interni) e ancora Kent Taylor in Far West (A Distant Trumpet, Usa, 1964, di Raoul Walsh).
Alle volte la dicotomia fra libertà e civiltà porta il “politico” alla rinuncia delle cariche per lanciarsi nell’avventura, come Glenn Ford in Cimarron (id., Usa, 1960, di Anthony Mann) o per riaffermare il propri valori rispetto al degenerare della società, come Don Murray in Il re della prateria (These Thousand Hills, Usa, 1958, di Richard Fleisher), che abbandona la carriera politica per poter affrontare in duello il suo nemico.
Molto spesso la politica ha il solo scopo di mascherare attività svolte al di là della legge, come in Texas Express in cui David Brian acquista a basso costo i terreni su cui transiterà la ferrovia in costruzione, o serve a giustificare antichi rancori, come in Non si può continuare ad uccidere (The Man from Colorado, Usa, 1947, di Henry Levin) dove Glenn Ford, ottenuto il nuovo incarico di giudice, si vendica di quanti lo avevano tradito passando nelle file degli avversari facendoli impiccare. Ancor peggio abbiamo Lon Chaney yr. in Lo sperone nero (Black Spurs, Usa, 1965, di Robert G. Springsteen) che incarna colui che si e arricchito con la costruzione delle ferrovie senza badare a scrupoli morali utilizzando la copertura della politica.
Ben delineata l’ipocrisia del politico in Soldati a cavallo (The Horse Soldier, Usa, 1959, di John Ford) con John Wayne al comando di una difficile missione. Willis Bouchey (colonnello Phil Secord) interpreta un politico che riveste temporaneamente un grado militare. Il suo unico pensiero durante la difficile operazione in territorio nemico e quello delle ripercussioni sulla campagna elettorale in cui si presenterà per la carica di governatore. Falsità, arroganza, pressappochismo, vigliaccheria, tutto quanto vi è di negativo nell’epopea del West lo incarna il “politico” di turno.
Ed ancora, in I ribelli del Kansas (The Jaywalkers, Usa, 1959, di Melvin Frank) Jeff Chandler ha come desiderio primario ripetere a modo suo le gesta di Napoleone (un illustre predecessore nella categoria dei “politici”) dapprima terrorizzando la popolazione del Kansas e quindi proponendosi come il salvatore dello Stato.
L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, Usa, 1962) di John Ford è un esemplare ritratto di un politico positivo, James Stewart (senatore Ransom Stoddard), della sua vita e della sua carriera dettata dalla lotta contro la brutalità e l’illegalità. Ma, come insegna Ford, dietro l’apparenza pubblica di una carriera “facile” vi è l’opera di un onesto cittadino, John Wayne (Tom Doniphon), che veglia sull’operato e ne diviene coscienza critica. Evidente simbolizzazione della visione del regista (e non solo) sulla difficile gestione di una politica corretta. Altro esempio di scontro tra i due volti della politica lo ritroviamo nell’ambientazione elettorale di Il giudice (Judge Priest, 1934) di John Ford con Will Rogers (giudice William “Billy” Priest, candidato) e soprattutto nel quasi remake Il sole splende alto (The Sun Shines Bright, 1953) sempre di John Ford con Charles Winniger (giudice William Pittman Priest, vincitore delle elezioni), Milburn Stone (Horace K. Maydew, “politicante”) in cui attraverso lo scontro fra due opposte concezioni di vita, simboleggiate dai due protagonisti, traspare “l’abisso esistente fra i bisogni dell’individuo e la capacità della società di soddisfarli”[5].
Attraverso la storia
Dalla disamina di un unico genere, il western, sorge prepotentemente una richiesta. Qual è l’esatta definizione di “politico” e chi sono i personaggi che si possono definire tali. Evidentemente si tratta di una risposta difficile. Non ci aiuta certo la definizione dal dizionario, che vede la politica come la “teoria e pratica che hanno per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello Stato e la direzione della vita pubblica”[6] e nel politico colui che e connesso a tali attività. Cosi diventa possibile attribuire la qualifica a qualsivoglia personaggio in senso estensivo e, al contempo, negarne altri la cui evidenza appare palese. E’ giusto dire che è un politico il giovane Lincoln prima di divenire presidente o coloro che stanno svolgendo una campagna elettorale di dubbio successo, cosi come i generali che conducono la guerra esercitano un governo militare e quindi (da Grant a Eishenawer) divengono presidenti o ricoprono altri incarichi istituzionali. E i nobili, re e regine (ad esempio Maria di Scozia (Mary of Scotland, Usa, 1936) di John Ford con Katharine Hepburn nel ruolo della regina) o i dittatori (Mussolini e Hitler si ritrovano in quasi tutti i film sulla seconda guerra mondiale, Napoleone in quelli sul primo ottocento). Evidentemente anche i condottieri e i senatori della Roma antica erano politici, ma ciò indica che interi generi, come il “peplum” contengono tali figure. Estendendo a dismisura le caratteristiche di questo “personaggio” ci si potrebbe trovare nella stessa situazione della figura della “donna” la cui definizione all’interno di particolari generi ha una funzione precisa (ad esempio nel western, nel poliziesco, nell’erotico) ma assunta come figura generale porterebbe semplicemente ad un lungo elenco senza significato di quasi tutti i film prodotti. Il “politico” ha dunque bisogno di una definizione che ne permetta di maneggiare la materia senza debordamenti e con facile distinguibilità. Il personaggio va dunque limitato nel tempo, dall’ottocento in poi per una sorta di coerenza comportamentale, specialmente per il cinema statunitense, altrimenti anche i prelati (cardinali come Mazzarino e Richelieu sono “politici”) prende in considerazione solo incarichi elettivi che ne caratterizzino l’esistenza (negli Usa però anche sceriffo e giudice sono eletti) e non marginali, di personaggi illustri si analizzano anche le vite precedenti all’insediamento nella carica più prestigiosa (Kennedy, Lincoln, Grant, Eisenhawer) ed infine, specialmente per il cinema italiano, si focalizza l’attenzione sul periodo di maggior produzione di film aventi il “politico” come protagonista, ed infine si esaminano più approfonditamente gli ultimi anni poiché in tale periodo divengono maggiormente visibili le modifiche sociali apportate alla raffigurazione di questo personaggio.
Ovviamente come nella definizione dei generi spesso si deborda volentieri così accade anche nella definizione del personaggio politico. Come non considerare un “politico” Napoleone? Anche se, ovviamente nella filmografia risulta preponderante la parte militare di questo personaggio storico. Ricordiamo solo Napoleone (Napoleon, Francia, 1925-27) di Abel Gance, con Albert Dieudonne (Napoleone Bonaparte), Van Daele (Robespierre), Antonin Artaud (Marat), Abel Gance (Saint-Just) per la complessa narrazione che vede però tanti altri “politici” dell’epoca come protagonisti. Ma si potrebbe continuare a lungo, basti pensare a Danton (Danton, 1982, di Andrzej Wajda), ma questo ci porterebbe lontani dal discorso di caratterizzazione del personaggio. Rimanendo invece sempre nei dintorni degli Stati Uniti non si può evitare di ricordare almeno La nascita di una Nazione (The Birth of a Nation, Usa, 1915, di D.W. Griffith) in cui è presente Ralph Lewis (il deputato a cui e legata la famiglia Cameron, protagonista del film) e il profondo significato “politico” dell’intera vicenda. Non a caso si chiamerà sempre Cameron il politico corrotto protagonista di Il club del diavolo (A Man Betrayed, Usa, 1941) di John H. Auer, con John Wayne nei panni di un avvocato che vi si oppone. Delinquenza comune e politica si legano in maniera indissolubile.
Il soggetto del discorso e le avventure del “politico” americano
Il concetto di potere politico che attraversa i film menzionati si avvale spesso di figure marginali, mentre il centro dell’azione si ritrova in altri settori sociali, in ruoli diversi. Ma non è sempre così. Ciò che interessa, dopo questo primo approccio, è il tentativo di definizione di un oggetto sfuggente, come d’altra parte vuole anche il suo contenuto, di quel gruppo di pellicole in cui il “politico” risulta essere il motore stesso del film, il soggetto dell’opera e in cui ci si sofferma più approfonditamente sulle implicazioni di questa figura nel contesto sociale. L’affare della sezione speciale (Section Speciale, Fr, 1975) di Costi Costa-Gavras e soprattutto Z – L’orgia del potere (Z, Fr, 1969) sempre di Costi Costa-Gavras con Yves Montand (il deputato ellenico Gregorios Lambrakis) e Jean Louis Trintignant vedono la storia ruotare attorno al “politico” che diviene elemento di riflessione e di narrazione al contempo. La storia personale serve da pretesto per l’analisi storica di un determinato periodo. Il film per eccellenza potrebbe essere Quarto potere (Citizen Kane, Usa, 1941) di Orson Welles con Orson Welles (Kane) candidato alla presidenza. Ma la storia ripercorre l’ascesa e la vita di un uomo che del potere e della politica hanno fatto motivo dell’esistenza stessa.
La critica al soggetto politico viene affrontata in maniera interessante da Frank Capra che e assieme a Ford rappresenta un modello fondamentale per il “genere”. In Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith goes to Washington, Usa, 1939) di Frank Capra. James Stewart eletto casualmente senatore entra in conflitto con la potente lobby del corrotto senatore Claude Rains. Dopo un discorso di tre giorni ininterrotti ottiene la vittoria. Quindi in Arriva John Doe / I dominatori della metropoli (Meet John Doe /John Doe Dynamite, Usa, 1941) di Frank Capra con Gary Cooper, amara riflessione sull’oppressione e corruzione della classe dei politici. Leint-motive che attraversa l’universi cinematografico. In Tempesta su Washington (Advise and Consert, Usa, 1962) di Otto Preminger con Don Murray e Henry Fonda candidato alla carica di segretario di Stato. Tratto dal romanzo di Drury è ricco di allusioni verso i politici contemporanei al film. Due anni più tardi ritroviamo Fonda nei panni di un ex segretario di Stato in corsa per la presidenza. L’amaro sapore del potere (The Best Man, 1964, di Franklin J. Schaffner è una caustica satira su una convention e su tutto ciò che ruota attorno alla politica.
Positivi o meno i “politici” divengono improvvisamente decisionisti e pronti ad annientare il genere umano o perlomeno una parte del pianeta. Azione esecutiva (Executive Action, Usa, 1973) di David Miller con Burt Lancaster, una sorta di thriller sull’assassinio del presidente Kennedy dovuto ad un complotto che coinvolge industriali e politici. Sette giorni a maggio (Seven Days in May, Usa, 1964) di John Frankheimer, con Burt Lancaster capo di stato maggiore dell’esercito), Kirk Douglas e Fredric March (il presidente). Lancaster tenta un colpo di stato, ma il presidente e altri militari lo sventano. Ultimi bagliori di un crepuscolo (Twilight’s Last Gleaming, Usa, 1976) di Robert Aldrich con Burt Lancaster (colonnello Lawrence Dell), Charles Durning (presidente degli Usa) Joseph Cotten (segretario di stato), Melvyn Douglas (ministro della difesa). Lancaster vuole costringere, con la minaccia di scatenare un conflitto atomico, i politici a rivelare una serie di segreti di stato sulle guerre intraprese dagli Usa. In A prova di errore (Fail Safe, Usa, 1964) di Sidney Lumet con Henry Fonda promosso presidente che deve affrontare la minaccia di un conflitto atomico. Con la conseguenza di “vaporizzare” un paio di città in base alla ragion di stato. Il tutto è reso in maniera ironica in Il dottor Stranamore ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove: or, How I Learned to Stop Worryng and Stop the Bomb, Usa, 1963) di Stanley Kubrick con Peter Sellers e George C. Scott. Anche qui i politici devono decidersi fra un errore (umano…) e l’annientamento. Ovviamente sceglieranno la peggiore delle soluzioni.
Anche quando sono solo dei comprimari, e di secondo piano, i politici sono rappresentati negativamente. In L’inferno di cristallo (The Towering Inferno, Usa, 1975) di John Guillermin e Irwin Allencon con Steve McQueen e Paul Newman il politico di turno è uno speculatore e assai poco edificante, l’incendio, tutto sommato e anche colpa sua. In Nashville (Nashville, Usa, 1975) di Robert Altman con Keith Karadine serve solo per il comizio show finale per le elezioni primarie con attentato politico di contorno, mentre in Il vento e il leone (The Wind and the Lion, Usa, 1975) di John Milius con Sean Connery e Brian Keith nelle vesti di un simpatico ma stravagante presidente Theodore Roosvelt dai risvolti inquietanti. In Senza via di scampo (No Way Out, Usa, 1987, di Roger Donaldson) Gene Hackman interpreta un segretario alla difesa omicida che intorbida le prove, cerca di creare un altro colpevole, oltre ai soliti comportamenti “da politico corrotto”. Stesso tipo di personaggio in Bullitt (Bullitt, Usa, 1968) di Peter Yates. L’investigatore Steve McQueen indaga su un omicidio e arriva al politico corrotto.
Una grande attenzione all’ambiente di vita dei politici la ritroviamo in La seduzione del potere (The seduction of Joe Tynana, Usa, 1979) di Jerry Schatzberg. Alan Alda (senatore Joe Tynan) è il protagonista, un politico, circondato da ogni sorta di suoi pari, da Rip Torn (senatore Kittner) a Melvyn Douglas (senatore Birney). Il contenuto del film si pone come “un lamento sui guasti che può recare al tessuto morale il distacco fra il pubblico e il privato, in particolare sui danni prodotti dall’ambizione della carriera politica”[7]. La carriera arriva al massimo vertice con la corsa(che si presume vittoriosa) verso la presidenza. Il film è una buona sintesi e “rappresenta con discreta efficacia l’ambiente dei politici, certe loro volgarità e certo loro infantilismo, il sistema di favori e di ricatti in cui si muovono e le contraddizioni fra l’immagine e la realtà”[8]. E rappresenta anche una posizione intermedia fra la critica al sistema politico, che ritroviamo nei film precedenti, e la edulcorata “political correct” degli anni ’90.
Il protagonista di Nata ieri (Born Yesterdey, Usa, 1950, di George Cukor) Broderick Crawford, non è un “politicante” in senso stretto, tuttavia agisce come e con i politici per corrompere ed ottenere profitti e per questo si reca a Washington, come dire la patria dei.
Citiamo solo qualche esempio tratto da un altro sottogenere, quello delle biografie romanzate dei presidenti o noti politici, che annoverano film su Kennedy, Nixon, Malcom X, ecc.. Ricordiamo Primary (Usa, 1960) di Richard Leacock. Il film descrive la campagna elettorale della “primarie” del giovane Ted Kennedy contro il senatore Hubert Humphrey per la candidatura alla presidenza degli Usa. O più recentemente Gli intrighi del potere – Nixon (Nixon, Usa, 1995) di Oliver Stone reduce dalla regia del precedente JFK – Un caso ancora aperto (JFK, Usa, 1991). Fra il dramma shakesperiano e l’agiografica.
Il sunto della visione americana del politico lo può fare un italiano, Sergio Leone, con C’era una volta in America (1984). James Woods (senatore Bailey) da giovane, durante il proibizionismo, era un gangster, alla fine degli anni sessanta un politico coinvolto in uno scandalo. E quest’ultimo è il volto che ricordiamo.
Critica sociale e satira all’italiana
Potrebbero chiamarsi “storie di ordinaria corruzione”. Tant’è che il politico italiano nei film prodotti dalla fine degli anni ’40 ad oggi si identifica con figure più o meno spregevoli e disoneste, con uniche eccezioni alcune bonarie ed ironiche rivisitazioni di personaggi marginali e lontani dalle vere centrali del potere.
Abraham Lincoln pronuncia nella prima scena del celebre film di John Ford Alba di gloria una battuta iniziale di notevole importanza “Sapete tutti chi sono io” rivolta al pubblico nel film e a noi spettatori con un duplice significato: quello di fiducia nel ruolo ricoperto nella finzione cinematografica e quello di valore storico. Un personaggio di alto rilievo morale e sociale il cui riconoscimento delle qualità appare immediato e dovuto. La versione italiana del politico invece si presenta spesso con la frase “Lei non sa chi sono io!” sinonimo di arroganza e prevaricazione. Esempio di come la categoria del politico sia connotata negativamente nel cinema e nella società italiana. Anche Mi manda Picone (1983) di Nanni Loy con Lisa Sastri (Luciella, la moglie di Picone) e Giancarlo Giannini (Salvatore) presenta, anzi è costruito, su un’altra frase tipica. Più che “politico” il Picone del titolo è stato un camorrista. Tuttavia la frase stessa “mi manda…” pronunciata durante tutto il film da Giannini, con esiti vari, ma generalmente positivi, riconduce ad un uso proprio della “raccomandazione” politica italiana. Sulla degenerazione della vita politica incisivo risulta essere Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti con Nanni Moretti (il ministro Cesare Bottero) e Silvio Orlando (il professore “portaborse” Luciano Sandulli). Attraverso la descrizione della vita di un politico (qui elemento centrale della narrazione) assistiamo alla disamina degli aspetti negativi (ed intrinseci) di un ruolo sociale codificato nel paese. Così come il termine assassino indica una persona che uccide il termine politico indica un individuo malvagio e corrotto. Senza alternative. Ben lontana si collocava la satira dolce-amara della serie di Don Camillo e Peppone iniziata nel 1952 con Don Camillo (Le petit monde de Don Camillo, di Julien Duvivier) con Fernandel e Gino Cervi. Qui la contrapposizione fra due teorie filosofiche (cattolicesimo e comunismo) si stemperava nella quotidianità dei problemi di una provincia in espansione.
La descrizione dei politici “marginali” rappresentava individui animati da buone intenzioni e tutt’al più vittima di circostanze sfavorevoli. Come in Il Federale (1961) di Luciano Salce con Ugo Tognazzi e Georges Wilson commedia agrodolce in cui al fascista idealista e all’antifascista emarginato si succederà (siamo alla fine della guerra) un’inversione di ruoli. La discriminante è determinata dal potere. Il potere corrompe. Se vogliamo un gustoso cammeo pensiamo a Il sorpasso (1962) di Dino Risi. Vittorio Gassman (Bruno Cortona) piccolo faccendiere incolla sul lato destro del parabrezza della sua Lancia Aurelia Sport un foglio con la scritta “Camera Deputati” per avere libero accesso in qualsiasi luogo. L’emblema del potere. E sui deputati la cinematografia italiana si sofferma a lungo, pensiamo a La giornata dell’onorevole (1963) episodio di I mostri di Dino Risi con Ugo Tognazzi. Emblematico il “ruolo” del politico. Un deputato democristiano viene avvisato della presenza di un generale ha scoperto una truffa organizzata da un funzionario ai danni dello Stato. Fa attendere tutto il giorno il generale prima di riceverlo per dar modo di “legalizzare” l’illecito. Rimprovera quindi il generale e lo fa pensionare.
Passiamo poi, ci troviamo sempre nell’ambito della commedia anche se più greve, alle considerazioni di vendetta verso una figura, quella del politico per l’appunto, divenuta ormai l’emblema stesso del “male”. Nel film di Dino Risi In nome del popolo italiano (1971) con Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman si propone una scelta “giustizialista” per fermare il fenomeno del malcostume, in Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli con Ugo Tognazzi si indica come avvenuto un golpe bianco che ha ridotto lo Stato a una dittature mascherata ed infine in Todo Modo (1976) di Elio Petri con Gian Maria Volonte e Marcello Mastroianni si invoca lo sterminio di una classe, quella dei politici, rei del degrado e della distruzione del sistema sociale nazionale.
Continua tuttavia anche la commedia più classica, come in Signori e signori, buonanotte (1976) di Luigi Comencini, Nanny Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ettore Scola o in Incensurato provata disonesta carriera assicurata cercasi (1973) di Marcello Baldi con Gastone Moschin e Nanni Loy od ancora in Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada (1983, di Lina Wertmuller) con Ugo Tognazzi (on. De Andreiis), Gastone Moschin (Ministro degli Interni). satira feroce contro gli uomini del Palazzo. Il ministro rimane bloccato nella sua auto blindata, si reca alla villa di un deputato democristiano, non riescono ad aprirla, la moglie del deputato fugge con un terrorista. Per arrivare al cammeo di Giulio Andreotti (forse il politico più noto all’epoca) in Il tassinaro (1983) di Alberto Sordi che recita se stesso.
Accanto a questi esiste tuttavia la figura del politico visto in chiave “storica”. Ad esempio gli ultimi mesi della II Guerra Mondiale in Mussolini ultimo atto (1974) di Carlo Lizzani con Rod Steiger nel ruolo del dittatore o all’opposto il soggiorno obbligato e la fuga di un giovane politico antifascista in La villeggiatura (1973) di Marco Leto con Adolfo Celi e Adalberto Maria Merli o sempre l’esilio in Fontamara (1980) di Carlo Lizzani con Michele Placido e Ida di Benedetto tratto dall’omonimo romanzo di Ignazio Silone. O ancora in Corleone (1978) di Pasquale Squitieri. Protagonisti Stefano Satta Flores (deputato Natale Calia) e Giuliano Gemma (Vito Gargano, capo del clan mafioso). Il deputato viene eletto grazie alle complicità mafiose. Nella salita al potere (diverrà alla fine sottosegretario) uccide il capo clan suo complice per eliminare prove scottanti. Sulla stessa linea si colloca anche Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi con Salvo Randone e Rod Steiger. Il crollo di un palazzo mette in luce gli intrallazzi dell’assessore Nottola un imprenditore edile che utilizza per il proprio profitto il piano regolatore della città.
L’evoluzione del modello
Se osserviamo la produzione degli ultimi anni assistiamo ad un mutamento nella descrizione del politico. Viene “umanizzato”, reso quotidiano nell’aspetto, nei sentimenti, nei modi di reagire. Non è diverso da qualsiasi altro professionista, in qualsivoglia campo lo si cerchi. Con una differenza. Riesce meglio in tutto perché è colui che gestisce il potere. Pensiamo a Il presidente – una storia d’amore (The American President, Usa, 1995, di Rob Reiner) dove Michael Douglas interpreta un presidente che si innamora. Fra qualche richiamo a Frank Capra e ai suoi film precedenti (Harry ti presento Sally) si recupera un tono da commedia in cui i meccanismi della gestione del potere appaiono allo stesso livello della gestione degli affari sentimentali. Sostanzialmente un uomo come tutti, senza neanche difetti, tutto sommato. Concetto sostenuto anche da Dave – Presidente per un giorno (Dave, Usa, 1993, di Ivan Reitman) in cui Kevin Kline sostituisce (ne è il sosia perfetto) ad un pranzo ufficiale il presidente. Poi per una serie di circostanze deve continuare a svolgere il nuovo ruolo. Facile leggere la trasposizione del concetto di comportamento quotidiano alla portata di qualsiasi cittadino con la conseguente convinzione di “comunanza” di intenti e condotta. Se poi lo vogliamo anche eroico ecco il politico per eccellenza (sempre il presidente) Bill Pullman che in Indipendence Day (id., Usa, 1996) salva l’umanità e la porta alla riscossa, nonché alla vittoria, contro gli alieni invasori. Sempre presentato come un qualsiasi cittadino che gestisce in rappresentanza della popolazione il potere. Potrebbe essere il vicino di casa.
Anche nella prosecuzione dei “sottogeneri” classici assistiamo a un cambiamento. In Riccardo III (Richard III, Gran Bretagna, 1996, di Richard Locraine), nona trasposizione cinematografica dell’opera shakespeariana, trasferisce l’azione in un’Europa degli anni ’30 in cui si contrappongono le democrazie occidentali contro il Nazismo. Con una definizione a tutto tondo del bene e del male, ed anche questo percepito in una forma simbolica. E se di politici “corrotti” si vuol parlare ecco City Hall (id., Usa, 1996, di Harold Becher) dove il sindaco di New York deve districarsi in un universo in cui “le gradazioni dell’umanità vanno da Charles Manson a Maria Teresa di Calcutta e il resto di noi sta nel mezzo”[9]. Il sindaco incarica il suo assistente di far luce sugli affari poco puliti nella politica cittadina. Esattamente l’opposto di vent’anni prima. Non a caso il film è tratto da un romanzo di Ken Lipper, ex vicesindaco di New York. Il soggetto del discorso parla di sé.
Odiò qualche politico “cattivo”, o perlomeno ambiguo, lo troviamo ancora, anche se ormai il “genere” scivola sempre più nella fantapolitica piuttosto che nell’analisi di fatti “reali”, come in Il rapporto Pelican (The Pelican Brief, Usa, 1993, di Alan J. Pakula). Il complotto esiste e, contro ogni logica, la studentessa in legge Julia Roberts avrà facile ragione di una cospirazione che vede coinvolta la stessa Casa Bianca. Qualche complottino il politici lo architettano ancora in Attacco al potere (The Siege, Usa, 1998, di Edward Zwick), ma agiscono in maniera così “political correct” da risultare prevedibili, noiosi, e sostanzialmente poco credibili. Ci pensa sempre una donna, qui Annette Bening accompagnata, come nel precedente, da Denzel Washington (in rappresentanza delle minoranze) a personificare il comune umano che tutto risolve. Il cittadino vince in ogni campo. Specialmente in quello fantastico. Decisamente fantasiosi anche se molto divertenti i vari episodi di Attacco al potere – Olympus Has Fallen (Olympus Has Fallen), film del 2013 diretto da Antoine Fuqua con protagonista Gerard Butler. Qui il presidente degli USA è sempre in pericolo attaccato da ogni tipo di terrorista mondiale. Per fortuna c’è Butler che da solo vale un esercito, e qualcosa di più.
Modelli, trasferimenti e psicologie
La visione comunicataci dal media cinematografico della figura del politico, cioè del detentore di potere, varia nella tipologia offerta anche raffrontando solo brevi distanze temporali. Tuttavia i mutamenti non appaiono casuali o sporadici, ma avvengono all’interno di categorie codificabili come sottogeneri, pur non rientrando ne in quelli prettamente cinematografici ne in quelli di derivazione psicosociale. La sovrapposizione stessa fra il concetto di “politica”, come sommatoria di caratteristiche ideologiche e comportamentali di un gruppo, e la figura del “politico”, per indicare un unico individuo che pratica tale attività, all’interno del messaggio trasmesso dal cinema fa sì che non vi sia una categoria omogenea quanto ad oggetti contenuti, ma un insieme volutamente vago e indistinto. Estremizzando si potrebbe negare l’esistenza di una categoria di tal genere, ma la presenza solo di elementi di rinforzo ad altre classi di fattori. Ad esempio in Soldati a cavallo, un film a metà strada fra il western e il bellico, la figura negativa del politico presente serve solo a sottolineare la positività degli altri protagonisti principali ed è inessenziale nell’economia del racconto, che ne trae vantaggio dalla presenza, ma potrebbe facilmente sostituirla con un’altra. Non è sempre così. La furia vendicatrice del regista Petri in Todo Modo non avrebbe ragione d’essere senza il soggetto principale del film: i politici per l’appunto. Così affrontiamo la prima distinzione: elemento marginale che può divenire puro colore al racconto o punto centrale ed irrinunciabile della narrazione. Se osservassimo con attenzione tutto il cinema mondiale, per un periodo di tempo piuttosto lungo, probabilmente avremo una panoramica completa dei mutamenti politici avvenuti nei singoli stati, nello stile dei registi e nel gusto del pubblico. Tuttavia per sintesi abbiamo esaminato, e in maniera relativamente approfondita, non trascurando i passaggi cruciali delle singole cinematografie, quelle più rappresentative per il nostro paese e, in termini lati, per la società occidentale[10]. Dunque effettuando questa osservazione comparata notiamo le strutture diverse delle due società e le loro modifiche. Nel cinema statunitense una forma di critica sociale verso la figura e l’universo politico si stempera nel corso degli anni fino ad arrivare ad una sorta di acquiescente accettazione e proposizione in termini di valori positivi. Si è modificato l’universo politico o la percezione del pubblico? Propendendo per la seconda ipotesi la variazione si ritrova nella tipologia di pubblico, nel suo potere d’acquisto, nella sua collocazione sociale che hanno modificato il contenuto del messaggio richiesto. Assistiamo perciò da un lato all’adeguamento domanda – offerta da parte del mercato, dall’altro alla trasmissione di nuove informazioni da parte di un’agenzia centrale verso i riceventi periferici. Lo stato utilizza il media per ottenere consenso attraverso la presentazioni di modelli positivi del suo funzionamento, affinché essi divengano parte della conoscenza comune e vengano considerati come “naturali” dall’utente. Analogamente nel cinema italiano assistiamo alla progressiva scomparsa di film che approfondiscono il rapporto fra politico e sociale, e la stessa figura del politico tende a dissolversi. Anche qui ci troviamo di fronte a una mutata esigenza della struttura centrale di fronte ad una rinnovata situazione sociale. Se pensiamo ad alcuni modelli trasmessi attraverso i media visivi, come il colore dei capelli, certi atteggiamenti nei rapporti interpersonali, determinati canoni di valutazione del mondo che ci circonda, l’uniformazione degli elementi di riconoscimento sociale, ci possiamo rendere conto di quanto siano determinanti i messaggi e i valori di “consenso” (o meno) che li contengono rispetto alla formazione di un tessuto sociale congruente all’agenzia centrale. Il rinforzo verso un atteggiamento porterà alla sua diffusione e approvazione sociale, con conseguente stabilità del sistema che lo ha generato.
Il secondo punto da affrontare è quello della percezione del messaggio ovvero per quale motivo il contenuto, cioè l’informazione, viene accettata e diviene parte del nostro bagaglio di conoscenze. L’informazione, per quanto unidirezionale, non è univoca. Anzi, in questo caso non solo deve scontrarsi con quella proveniente da altri media, la stampa, la televisione, ecc., ma sottostare al palese vincolo della componente manifesta legata alla finzione cinematografica. Tuttavia il modello suggerito dal cinema diviene più forte di quello “reale” proposto dai media delegati all’informazione. Come nel caso della realtà virtuale[11] risulta maggiormente attendibile il messaggio della fiction rispetto a quello della stampa. Il “politico” che appare sui quotidiani continua ad essere corrotto e negativo mentre quello nel cinema diviene propositivo. Ed è il secondo a imporre il modello di riferimento, tanto forte da far divenire quasi marginale il soggetto reale. O forse… la dicotomia esistente nella costruzione dei modelli di riferimento qui diviene più visibile. Pensiamo ai divi cinematografici classici[12], all’accettazione dei loro personaggi come tangibili, a discapito delle persone fisiche, la cui vita viene accettata solo se “simile” a quella dei soggetti fittizi della fiction. Ad esempio Arnold Schwarzenegger rappresenta la figura del combattente implacabile, sempre in azione, contro qualsiasi minaccia. Nella vita privata predomina la visione di un uomo sempre a bordo del suo fuoristrada corazzato, in palestra o in moto con il regista Cameron, altro “duro” dell’immaginario collettivo. Probabilmente qualche volta avrà portato i figli a scuola, o preparato qualcosa da mangiare, o semplicemente si sarà seduto in poltrona a leggere un giornale. Ma questo tipo di “personaggio” non esiste nella raffigurazione che abbiamo di Schwarzenegger. Lo stesso può valere per Meg Ryan. Rappresenta la visione romantica della vita e quindi del rapporto di coppia. Nella sua vita privata magari sarà invece più dura di Schwarzenegger, ma questo, anche se provato, non interessa il fruitore della figura che ella rappresenta. Nella percezione comune fra una figura fantastica, ma desiderabile, ed una reale, ma negativa, la preferenza ricade sulla prima. Ecco perché il “politico” degli ultimi film prevale sul “politico” della realtà. Come diceva Edgar Morin[13] la vita desiderata non vede tempi d’attesa nella successione degli eventi, come in un film per l’appunto, ogni avvenimento deve portare emozione, e gli avvenimenti devono susseguirsi in un’unica, continua dimensione. Senza interruzioni.
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Note
[1] Nel periodo a cavallo fra il 1994-95 sono usciti ben quattro volumi che analizzavano la figura dello psicologo-psichiatra all’interno del contesto narrativo cinematografico. Il primo, di Alceo Melchiori, Lo psicologo nei film, Domenghini Editore, Padova, poi di Ignazio Senatore L’analista in celluloide. La figura dello psicoterapeuta al cinema dal 1986 al 1993, Franco Angeli, Milano, di Secchi Immagini della follia, Guaraldi, ed infine gli atti del Primo convegno cinema e psiche, Edizioni Kendall.
[2] Per i divi si va da Francesco Alberoni, L’élite senza potere, Vita e pensiero, Milano 1963, a Enzo Kermol e Mariselda Tessarolo, Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di divismo, Cleup, Padova, 1998.
[3] Se osserviamo la saggistica relativa a questo soggetto essa risulta prevalentemente essere descrittiva dei film relativi, come Gangsters, di John Gabree, Pyramid Comunications, 1973, o Violent America: The Movies, 1946/1964, New York, 1971 di Lawrence Alloway.
[4] Vedi Il western. Fonti, forme, miti, registi, attori, filmografia, a cura di Raymond Bellour, Feltrinelli, Milano, 1973, p.215.
[5] J. A. Place, I film di John Ford, Gremese, Roma, 1983, pag. 156.
[6] G. Oli, G. Devoto, Dizionario della lingua italiana, Le Monier, 1984, p. 1736.
[7] G. Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Roma, 1985, pag.19.
[8] G. Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Roma, 1985, pag.20.
[9] M. Lastrucci, City Hall, Ciak n. 4, aprile 1996, pag. 62.
[10] I titoli citati sono solo alcuni di quelli ritrovati. Per evitare elenchi inutili, in quanto ripetitivi di situazioni, registi, avvenimenti narrati, ecc. ci si è limitati a quelli giudicati come più rappresentativi. La scelta della cinematografia statunitense, quella che copre la maggior produzione e distribuzione planetaria, è, e rimarrà, obbligatoria per qualsiasi analisi dell’argomento. La cinematografia italiana dell’argomento “politici” nel contesto nazionale può, specialmente fino ai primi anni ottanta, essere considerata di buona distribuzione. Alcuni altri titoli (francesi, inglesi, ecc.) sono stati citati, pur non esaminando completamente tali cinematografie, in quanto essenziali ai fini del discorso.
[11] E. Kermol, Elementi di metacomunicazione: dal cinema alla realtà virtuale, in E. Kermol, Le strategie della comunicazione, Cleup, Padova, 1999, pag. 149.
[12] E. Kermol, M. Tessarolo, Divismo vecchio e nuovo, Cleup, Padova, 1998.
[13] E. Morin, I divi, Mondadori, Milano, 1963.