Gian Luigi Rondi: Domande e risposte
di Enzo Kermol
Incontrai Gian Luigi Rondi nel suo studio al David di Donatello (l’Oscar italiano) circondato dalle foto delle varie edizioni di questo prestigioso riconoscimento per lo spettacolo italiano e dalle innumerevoli attestazioni di benemerenza da lui raccolte nel corso degli anni.
L’immagine che meglio descrive questo testimone del cinema, non solo italiano, e che conservo nella memoria, è quella d’anni or sono, quando alla Mostra del Cinema di Venezia venne inaugurata la nuova sala della Galileo, costruita al di sopra della vecchia arena estiva all’aperto. Nel pomeriggio, quando il maggior numero di critici si riposava lontano dalle sale, Rondi entrò con un buon anticipo sulla proiezione in programma e, quasi furtivo, sfiorò le nuove poltrone, i corrimani, guardando il vasto spazio della nuova sala con affetto, quasi un padre verso il figlio. Poi si sedette un po’ discosto osservando il pubblico, soprattutto giovani data l’ora, che entrava numeroso, e sorrise contento di vedere come l’interesse per il cinema, questa sua grande passione, continuasse a vivere nelle nuove generazioni.
Lo incontrai altre due volte. La prima all’anteprima per la critica in una saletta al secondo piano dell’Hotel Excelsior, dove al mattino si incontravano i giornalisti con gli attori e i registi, mentre alla sera vi era una proiezione solo per gli addetti ai lavori. Il film era “Aliens – Scontro finale” . Arrivò pochi minuti prima della proiezione. Non c’era più posto, la saletta era gremita all’inverosimile. Gli portarono una sedia della vicina sala che posero nel corridoio all’ingresso di una della porte. Si accomodò e da lì guardò il film. Ebbi modo di salutarlo.
La seconda in occasione della proposta di organizzare un grande festival del cinema a Trieste. Ne parlai con l’allora sindaco di Trieste Richetti e con il deputato Coloni, che in un primo momento sembrarono favorevoli, poi nascosto ai due, li sentii mormorare qualcosa sulla guerra di correnti della DC e capii che come al solito nulla si sarebbe concretizzato.
Rondi si era dimostrato disponibile all’evento, da collocare in coda alla Mostra di Venezia, in modo da sfruttare l’immagine dell’avvenimento e il flusso dei critici colà riuniti. Con rammarico gli comunicai la falsa disponibilità dei politici locali e lui, con signorilità non commentò la notizia e mi ringraziò per quanto avessi tentato.
Da quando si interessa alla Biennale?
Ho legato il mio nome alla Mostra di Venezia esattamente dal 1948 quando ho cominciato ad essere presente come membro della giuria. Poi sono stato membro della commissione esperti, Commissario per la Mostra del cinema, quindi Direttore della Mostra, membro del Consiglio direttivo della Biennale, Presidente della giuria nell’ultima edizione di Guglielmo Biraghi e adesso sono stato eletto Presidente, quindi sono 45 anni dedicati, abbastanza dall’interno, all’evoluzione prima di tutto dal punto di vista cinematografico, che si esplica attraverso la Mostra del cinema poi alla Biennale come studio dei problemi dell’Ente.
Ha conosciuto molti registi, attori?
E’ chiaro che in tutti questi anni, soprattutto rimanendo a contatto della Mostra del cinema, per la Mostra viaggiando, e seguendo come critico cinematografico i maggiori festival internazionali, ho finito con il conoscere il mondo del cinema. 45 anni sono lunghi. Conoscere, ma anche avervi in mezzo degli amici. E’ una lunga lista e non sarebbe facile elencargliela. Certamente quelli che sono stati più incisivi nella mia esistenza sono, in Italia, Federico Fellini, tutt’oggi legato a me da una dimestichezza anche di abitudini molto profonde, poi agli inizi Rossellini, De Sica, Blasetti e Visconti, ciascuno per un motivo o per un’altro collegato sia alla mia professione che ai miei interessi.
Quello che ricorda di più?
Blasetti era l’unica persona che mi chiamava figliolo. Quando lo persi, ricordo di aver scritto “adesso per me comincia la vecchiaia, ero figlio fino a qualche tempo fa, papà l’avevo perso molti anni prima, e adesso non ho più nessuno che mi da un segno di giovinezza chiamandomi figliolo”.
Altri?
De Sica. Sono stato assieme a lui in molte battaglie, soprattutto agli inizi della sua carriera, quando i produttori non sostenevano il neorealismo. Rossellini posso dire che è stata la persona di cui ho fatto per anni la mia bandiera, anche perché come cattolico Rossellini rappresentava all’interno del neorealismo quella corrente cristiana che sentivo più vicina a me e più volentieri difendevo, anche dagli attacchi di quelli che preferivano un neorealismo di impostazione marxista.
E all’estero?
Pensi un po’ quanto sono stati lunghi i rapporti, che ancora oggi rimangono, almeno con gli auguri di Natale, con Ingmar Bergman, e addirittura, in tutto un altro mondo, con Akira Kurosawa.
In Francia, che è una specie di mia seconda patria, perché sono sposato con una francese, ho figli e nipoti francesi, ho coltivato soprattutto la grande e paterna amicizia di Renè Clair.
Quando dirigevo la Mostra nel 1971-72 e dopo, nell’altro quadriennio, egli è stato sempre presente, fisicamente, oppure, morto, moralmente, con la grande retrospettiva che gli ho voluto dedicare in occasione di una delle mie Mostre. Ma metta anche Marcel Carnè, con il quale ho spesso ancor oggi delle lunghe telefonate di saluto e di simpatia e al quale ho dato di recente un premio alla carriera.
Altri?
Metta anche il compianto Clouzot e, ancor oggi, Renè Clement, poi praticamente tutti i miei legami con il cinema tedesco. Nel 1973, essendo direttore degli Incontri di Sorrento, ho dedicato al giovane cinema tedesco, di cui oggi tutti parlano, ma di cui allora non parlava nessuno, una settimana riepilogativa, dove vennero persone oggi celebri, allora ignote, come Wim Wenders, Volker Schlndorff, Werner Herzog, Alexander Kluge, che ebbero un tale successo, e da quel momento una tale possibilità di penetrare nel mercato cinematografico italiano, che qualche anno dopo Schlndorff, ricevendo la Palma d’oro al Festival di Cannes per il suo Tamburo di latta, dichiarò, incontrandomi nella Croisette assieme ad un gruppo di giornalisti: “Vedete, questa Palma d’oro la devo a Rondi. Noi registi tedeschi non eravamo nessuno e grazie al suo Festival abbiamo potuto essere conosciuti e oggi sono qui a conquistare il primo premio a uno dei maggiori festival cinematografici europei”.
I più cari ?
Parliamo anche di amicizie più private e personali. L’amica che mi è stata più cara, e che più ho pianto quando l’ho perduta, è stata certamente Ingrid Bergman, alla quale fui vicino dal 1949, quando venne in Italia per incontrare Rossellini per Stromboli. L’ho seguita attraverso le sue vicissitudini private coniugali.
Quando lasci l’Italia la rividi tanto negli Stati Uniti quanto a Londra, dove si era ritirata a fare teatro negli ultimi anni della sua vita. Seguendola da vicino in occasione della sua malattia, e dedicandole proprio nel 1980 una lunga trasmissione televisiva, su Raiuno, di otto, nove film, che lei accettò di far precedere da una lunghissima intervista sulla sua vita. Andai a registrarla a Londra e credo le servì da pretesto, da occasione per confidarsi, e per dividere un po’ quelli che erano stati i problemi della sua vita, nelle varie categorie cronologiche in cui si erano proposti, concludendo poi a me in privato: “Gian Luigi non sono mai stata felice”. Perché, in realtà, al vertice della gloria, con dei bei figli, che l’hanno amata e che ha amato, pieni anche di successi personali, i suoi problemi e la sua necessità di esprimersi, il suo travaglio di dividersi tra la carriera e la vita privata non riuscii mai ad essere pienamente risolto, e perciò non le diede mai una vera felicità.
Qualcun altro?
Un’altra amica, Gina Lollobrigida, la cui amicizia continua tutt’ora e si intensificata in occasione di molti viaggi all’estero fatti insieme. Non perché avessimo voglia di viaggiare, ma perché a quell’epoca esisteva l’Unitalia Film, che era un organismo promozionale del cinema italiano all’estero, e fra i vari mezzi di questa promozione c’erano delle settimane all’estero di film italiani. In quelle occasioni oltre ai film si portavano registi, attori, attrici e anche critici. Ebbi modo di fare con Gina uno splendido viaggio in Asia che ci portò, dopo Bangkok, Singapore e Hong-Kong, anche a Tokio. E uno splendido viaggio in centroamerica che ci portò in Messico e poi in Sudamerica a Rio De Janeiro, dove ritornammo nuovamente perché lei aveva lasciato un così buon ricordo, in occasione della manifestazione cinematografica, che venne chiamata come “regina del carnevale”, ed io le feci da “principe consorte”. Accompagnandola, dovetti mascherarmi, tutte cose che non corrispondono al mio modo di vedere. Ho delle fotografie curiose con delle grandi piume di struzzo in testa, vicino a lei incoronata “regina del carnevale”. E’ veramente uno dei ricordi più variopinti della mia esistenza.
Dei più giovani cosa mi dice?
Parliamo di quelli che sono venuti dopo la generazione di Visconti, di De Sica, di Rossellini. Oggi il mio mito, tutti lo sanno, sono i fratelli Taviani. Ho approfittato della mia presenza alla Mostra di Venezia, per dare loro il Leone d’oro alla carriera. Non era mai stato dato a due autori così giovani, poi fratelli come sono, quindi due Leoni assieme. Ho sempre esaltato la loro opera e continuo ad essere considerato il loro fan. Ho il privilegio di essere sempre il primo a vedere i loro film, da solo in una saletta, con loro che, subito dopo, vengono a chiedermi il parere, dicendomi che da questo mio parere che si sentono tranquilli sulla carriera riservata al loro film.
Ci dice qualcosa dei recenti problemi alla Biennale?
Più che un’opposizione diretta alla mia nomina, tant’è vero che molti giornali, sulla qualificazione, sulla professionalità di Rondi, non hanno nulla da dire, sono scontenti del modo in cui sono stati nominati i consiglieri della Biennale. Non condivido queste critiche nei confronti dei miei colleghi.
La Biennale deve essere composta nel suo gruppo dirigente, il consiglio direttivo, da personalità che sono elette dagli enti locali veneziani, dall’assemblea del personale, e dalle confederazioni sindacali, e da tre persone nominate dal Presidente del Consiglio. Io sono nominato dal Presidente del consiglio, lo ero anche nel precedente quadriennio, quindi un’obiezione sui modi della mia nomina non è stata fatta. E’ stata fatta nei confronti di alcuni colleghi perché, si è detto, gli enti locali non hanno tenuto conto fino in fondo dello statuto della Biennale che chiede loro di nominare personalità della cultura. Di nominarle sulla base di elenchi che le associazioni culturali italiane forniscono agli enti locali. Ora questo dura dal 1973. Sono stati nominati anche dei politici, tant’è vero che alcuni sono diventati presidenti, come Ripa di Meana, come il professor Giuseppe Galasso che è uno storico, ma anche un politico, iscritto al partito repubblicano dove ha fatto una grandissima carriera.
Nell’attuale consiglio ci sono, più che dei politici puri, degli amministratori, i quali servono anche loro. Perché la mia teoria e che il consiglio direttivo della Biennale non un Comitato scientifico, un gruppo di amministratori. Ora bene che ci siano degli uomini di cultura, però, soprattutto con i difficili tempi di oggi, c’è bisogno di oculati amministratori. E’ vero che la gestione giuridico-amministrativa dell’ente del segretario generale e del direttore amministrativo, per chi vota, e risponde dell’attività dell’ente in campo amministrativo, il consiglio direttivo, il quale un vero e proprio consiglio di amministrazione.
Pretendere per questo consiglio unicamente degli intellettuali puri è anche rischioso per il buon andamento dell’ente. Invece si fatta polemica che non ci fossero solo intellettuali puri, poi siccome gli enti locali sono rappresentati da consigli, provinciali, regionali, i quali, eletti dal popolo in liste di partiti politici sono, ovviamente, espressione dei partiti politici, questo per legge, si è detto, inventando questa parola tanto sgradevole oggi di moda, che queste nomine erano lottizzate, in quanto partivano, ma era per legge, da partiti politici che sedevano negli enti locali con loro rappresentanti democraticamente e legittimamente nominati. Ora io nego anche questa lottizzazione, non posso però negare che oggi anche gli intellettuali appartengono ad aree, io non sono un democristiano, però sono un cattolico, quindi riconosco l’area cattolica come quella di mia appartenenza. Allora di altri si è detto di area liberale, di area socialista, e in questo senso hanno voluto costruire tutto questo meccanismo di accuse e di critiche, scoprendo, all’improvviso, quelli che loro consideravano guasti di un sistema che dura dal 1973. Se questo sistema ha finito per rivelare dei guasti, ecco perché già dal 1988 la Biennale si era preoccupata di preparare una riforma dello statuto. Questa riforma la stanno studiando anche i due ministri competenti, che sono i Beni culturali e lo Spettacolo.
Un disegno di legge stato già mandato in Senato, una corsia preferenziale. Mi sembra che a questo punto le polemiche dovrebbero cessare, invece non cessano perché quando si agitano i polveroni poi molto difficile far scomparire la polvere. Mi auguro che di fronte alla buona volontà di tutti, anche dei ministri che hanno preparato questa riforma, di fronte ai partiti che stanno studiando a loro volta delle riforme parallele, vedi il Pds, di fronte alla stessa Biennale, che ha continuato la sua opera di riformazione, e ha preparato una serie di emendamenti da inoltrare ai due ministri – e io stesso li ho portati a nome della Biennale – insomma si vede che la volontà di cambiare c’è. Si deve per constatare, insisto, che tutto quello che accaduto non accaduto in violazione della legge, ma in stretta applicazione della legge che gestisce la Biennale.
Cosa pensa del futuro del cinema italiano?
Il cinema italiano ha bisogno di una nuova legge, perché la 1213 ci regge da una ventina di anni, e abbiamo visto quante difficoltà incontra la sua applicazione. La nuova legge, che va sotto il nome di legge Boniver, ma ha cominciato ad essere predisposta con Lagorio e poi passata a Tognoli, allo studio. La situazione parlamentare italiana quella che tutti conoscono, se queste leggi non riescono ad arrivare rapidamente al traguardo perché il parlamento ha molti altri problemi. Per insisto nel dire che il cinema italiano ha bisogno di una nuova legge perché altrimenti le attuali strutture che lo governano sono le meno adatte ai tempi nuovi, soprattutto di fronte alla concorrenza televisiva, del cinema americano, alla diminuzione della capacità di mercato. E’ un dato di fatto che le sale si vuotano e si chiudono, quindi c’è da porre dei rimedi. Devo dire che il testo di legge che la Boniver ha mandato in parlamento mi sembra buono, vi hanno lavorato tutte le forze politiche, vi hanno partecipato tutte le forze culturali, autori, critici, tecnici, produttori, quindi c’è da sperare bene.
E culturalmente?
Dal punto di vista economico vi è la crisi, dal punto di vista culturale nego che vi sia mai stata una crisi nel cinema italiano perché quanto di più vitale e fertile si possa dare. Noi abbiamo i migliori autori, imprenditori, tecnici e attori, quindi non abbiamo sentito la crisi se non come contraccolpo dovuto alle complicazioni economiche cui andata soggetta la nostra industria. Non c’è film che non sia applaudito all’estero, non c’è un autore che non abbia premi, e non abbiamo solo Fellini, di cui sono felice di veder festeggiato presto un quarto Oscar, abbiamo anche autori una generazione più giovane. Ciascuno si propone con le sue qualificazioni ovviamente i Taviani, Bertolucci, Scola, ma poi arrivando ai più giovani, anche Moretti.
Note
L’anno dell’intervista credo fosse il 1980, l’articolo uscì con alcuni interventi di redazione sul quotidiano “Trieste Oggi”. Qui è riportato nella sua forma originale.
Il film che vedemmo alla Mostra del Cinema di Venezia era “Aliens – Scontro finale” (Aliens, USA, Gran Bretagna, 1986) di James Cameron. Con Michael Biehn, Sigourney Weaver, Paul Reiser, Lance Henriksen, Carrie Henn. Fantascienza, durata 132 min.